martedì 13 dicembre 2016

Report Tavolo "Narrazioni della violenza attraverso i media"


https://nonunadimeno.wordpress.com/…/report-tavolo-narrazi…/

I lavori del tavolo “Narrazioni della violenza attraverso i media” sono partiti analizzando la comunicazione sul tema della violenza in un’ottica transmediale: dall’informazione alla pubblicità, dalle serie televisive alle canzoni, c’è un sostrato strutturale di rape culture, una cultura che tollera, legittima, persino alimenta la violenza (maschile) contro le donne.

Nella carrellata di immagini pubblicitarie che abbiamo visionato la violenza di genere viene (an)estetizzata: dai corpi femminili privi di vita o sottoposti a violenza è rimossa ogni traccia di dolore e sofferenza, i corpi appaiono in salute e belli, diventano oggetto di contemplazione, spesso nella forma di spettacolo erotico, destinato ad uno sguardo maschile eterosessuale (benché si usi questa tecnica per promuovere generi commerciali destinati a un pubblico femminile, come l’abbigliamento).

L’(an)estetizzazione contribuisce ovviamente alla normalizzazione, accettabilità, persino desiderabilità sociale della violenza sulle donne.

Dalle pubblicità commerciali alle canzoni di Rihanna ed Eminem fino agli articoli di giornale sui casi di femmicidio c’è una straordinaria coerenza di costruzione discorsiva, in cui la violenza sulle donne è raccontata dal punto di vista di chi la esercita e sublimata come parte del “mito fusionale”, dell’ideologia dell’amore romantico/passionale: l’uomo che agisce violenza viene rappresentato come ‘innamorato’ della vittima, il movente è la gelosia, ritenuta una “passione sana” (al contrario della violenza che è morbosa od eccessiva) oppure l’incapacità di accettare la separazione, raccontata con modalità che producono empatia ed assoluzione, deresponsabilizzando e legittimando l’autore della violenza.
Un altro frame spesso impiegato è quello della relazione conflittuale, che giustifica una violenza letale come reazione a una discussione e sposta la responsabilità dall’aggressore all’intera dinamica di coppia, di fatto alludendo alla corresponsabilità della vittima. In ogni caso, nonostante l’impiego del termine femminicidio sia aumentato da 4 articoli nel 2006 a 5000 articoli nel 2013, il modo di affrontare e descrivere il fenomeno rimane ancorato alla percezione della violenza come questione individuale.

Anche nelle campagne di comunicazione sociale permangono diversi stereotipi, tra cui la vittimizzazione della donna, rappresentata come passiva, inerme, e l’irrapresentabilità del maschio violento, assenza, ombra, fantasma, se non mostro, strategie che servono ad allontanare la violenza come “altro da noi”. Abbiamo invece ribadito la necessità del partire da noi, di costruire altre narrazioni della violenza, e abbiamo visionato insieme alcune buone pratiche ed esperienze positive sul terreno della produzione di immaginario, nate in campo educativo (il video “Questo non è amore” e la campagna “Che cos’è l’amor”, è stato citato anche il lavoro educativo/comunicativo della campagna NoiNo.org sul maschile ragionando su come lavorare sulla rappresentazione del maschile). È stato ribadito che il nostro lavoro deve puntare a rinnovare e ridefinire il discorso, uscendo dalle trappole narrative di questo ordine discorsivo, rifiutando il paradigma psicopatoligizzante, allarmistico ed emergenziale, e chiedendoci cosa ha da dare la parte maschile su questo e con quale strumenti possiamo combattere contro la microfisica della violenza che innerva le nostre vite.

Per la stesura degli obiettivi inerenti il tema Narrazioni del Piano antiviolenza femminista che Non Una Di Meno scriverà nei prossimi mesi, è stato proposto di partire da quello che esiste, (Convenzione di Istanbul, Cedaw, Rapporto Ombra Cedaw) e dalle buone pratiche solo in parte raccontate oggi che vorremmo raccogliere, sistematizzare e far confluire in una pagina web ad hoc del sito https://nonunadimeno.wordpress.com/

È stato proposto di fare pressione pubblica per ottenere un ente in seno a un futuro Ministero delle Pari Opportunità che sanzioni le pubblicità sessiste, delegittimando lo Iap (Istituto autodisciplina pubblicitaria), e l’Agicom, dimostratisi più volte inefficaci.
È stata inoltre denunciata l’esclusione delle associazioni di donne che lavorano su sessismo nei media dalle consultazioni CambieRAI realizzate per il rinnovo della convenzione Stato-RAI dello scorso ottobre e l’assenza delle questioni di genere dal relativo questionario Istat, che si richiede sia arricchito, somministrato su un campione più adeguato, chiarito dal punto di vista di genere.
È stato proposto di lavorare sul contratto di servizio della Rai (scaduto dal 2012) per presentare degli emendamenti.
È stata anche affrontata la questione dello Hate speech in rete e lanciata la proposta di creare una sorta di “task force” comunicativa che realizzi una grande campagna di comunicazione integrata femminista con un hashtag comune, che possa sia monitorare in modo capillare la produzione informativa, che diffondere contenuti sui social e attraverso i blog che fanno parte del percorso di Non Una di Meno, in una sorta di coordinamento della diffusione dell’enorme mole di materiale comunicativo autoprodotto dalle realtà afferenti al percorso nazionale.

Diverse associazioni culturali sono intervenute per ribadire la necessità di fare rete nella produzione e diffusioni di immaginari alternativi, anche in ambito artistico, performativo, musicale, creando piattaforme di condivisione e di autoformazione, mentre da alcune esperienze di centri antiviolenza è emersa la necessità di parlare di più di quello che si fa nei centri, di dare più voce alle donne che sono uscite dalla violenza (pratica ritenuta invece da altre pericolosa e facilmente strumentalizzabile, come ad esempio nel caso di Lucia Annibali).



Anche se si crea l’interlocuzione con alcune giornaliste, nel rapporto con i media il lavoro dei centri antiviolenza rimane comunque invisibile o distorto. 

Si sono ricordate alcune esperienze importanti nella narrazione dei media dal punto di vista dei centri antiviolenza, come il festival La violenza illustrata, e alcuni esempi di narrazione positive: Pensavo Fosse amore | Via del Gambero 77. Da più parti è venuta inoltre la richiesta di lavorare, a partire da noi stesse, sul linguaggio di genere, perché se non ci nominiamo non esistiamo. C’è chi ha proposto di lavorare su campagne e azioni positive, ma dandoci obiettivi programmatici, e chi ha lanciato l’idea di organizzare pressioni strutturali sull’ordine dei giornalisti, le testate, i pubblicitari con azioni di lotta che ci permettano di agire il conflitto verso i media. È uscita ovviamente anche la proposta di percorsi formativi per chi si occupa di comunicazione, in cui possano essere protagonisti i centri antiviolenza.
È stato inoltre proposto di richiedere una commissione di esperte, un osservatorio che vigili sulla comunicazione, anche quella governativa, visti i recenti casi del Fertility Day o lo spot Rai contro la violenza sulle donne. Qualcuna ha ipotizzato un meccanismo di rating.

Sintetizzando i piani, molto diversi tra loro, emersi durante la discussione riguardano:
- pressione sulle istituzioni nell’ambito della comunicazione
- monitoraggio narrazioni mediatiche mainstream
- mobilitazione femminista e pratiche di lotta contro i media
- formazione di giornalisti/e e comunicatori/trici
- autoproduzione di narrazioni
 

L'immagine può contenere: folla, una o più persone, spazio all'aperto e sMSIl tavolo “Narrazioni della violenza attraverso i media” ha raccolto esperienze, analisi, proposte molto diverse tra loro, e non tutte le donne e gli uomini che volevano intervenire sono riuscite a farlo: una ricchezza che ci ha motivate a definire la costituzione di 5 sottotavoli di lavoro, ossia dei gruppi operativi dedicati a “informazione”, “fiction”, “pubblicità”, “nuovi media”, “narrazioni artistiche” con la presenza delle professioniste (giornaliste, comunicatrici, artiste), delle ricercatrici, delle operatrici antiviolenza, di chi si occupa di educazione e delle attiviste in ognuno dei gruppi i lavoro tematici individuati. 

Nel gruppo è emersa la necessità di rivedersi dopo Natale, richiesta che si sposa perfettamente con la data del 4-5 febbraio proposta successivamente in assemblea. Si è inoltre deciso di costituire una mailing list unendo gli indirizzi delle persone già iscritte al tavolo con quelli raccolti alla fine della mattinata del 27 novembre, per cominciare a condividere tutti i materiali e preparare, tramite i gruppi operativi di lavoro, le basi per il prossimo incontro.
Il tavolo comunicazione aderisce alla proposta di Sciopero delle donne per l’8 marzo, e discuterà delle azioni pianificabili sul piano comunicativo in vista di quella data.

sabato 3 dicembre 2016

Chi ha paura della marea?

di Infosex - Esc Atelier 
 
Se le donne di tutto il mondo fanno moltitudine
26 novembre 2016: Roma è tornata a essere bella. Donne di tre generazioni differenti hanno aperto e attraversato una manifestazione oceanica, moltitudinaria, di oltre duecentomila corpi sessuati che hanno rotto e diradato la nebbia della prima mattina, il grigio, l'asfissia e l'immobilismo che ormai sembravano regola, battito monotono e irreversibile, del quotidiano. Il sole splende di nuovo, le strade pulsano di vita, desiderio, gioia, quei corpi si intrecciano, confondono, compongono: è marea. Non quella evocata per puro esercizio retorico o strana licenza poetica – slogan spesso tanto più arroganti quanto più frustrati – ma marea vera, che si riappropria della presa di parola pubblica, dello spazio comune, impersonale, inappropriabile e, perciò stesso, profondamente ed eminentemente politico. Del resto si sa, con le donne non c'è Uno che tenga, che esso sia il Sovrano o il Popolo. Una moltitudine dunque, ma non indistinta, piuttosto parziale e (orgogliosamente) differenziata, quella che si è ingrossata e ha preso forma in questi mesi – ma forse dovremmo dire anni – di lavoro, il più delle volte invisibile, nei centri e negli sportelli anti-violenza, nei quartieri, negli spazi sociali, nelle scuole e nelle università, quella che è scesa in piazza lo scorso sabato per dire basta alla violenza maschile sulle donne.

Ma per leggere e interpretare cosa si è dato il 26 novembre a Roma e già prima nelle piazze di tutto il mondo occorre allargare lo sguardo e partire da lontano, ripercorrere lo sviluppo e l'intimo intreccio tra antiche strutture patriarcali, modi di produzione e governo dei corpi. Forse il maggiore contributo della critica femminista all'analisi marxiana della genesi dei modi di produzione capitalistici è stato quello di ampliare lo schema fondamentale della cosiddetta accumulazione primitiva. Le recinzioni messe in atto agli albori della modernità non hanno riguardato primariamente ed esclusivamente le terre, i primi spossessati non sono stati i contadini, ma i corpi delle donne. Con essi, i loro saperi e poteri, un modello altro di comunità. Meglio: la traccia, a mezzo di violenza, di un confine netto tra produzione e riproduzione, la recinzione delle donne – per dirla con Ivan Illich – nello spazio chiuso del focolare domestico è stato ciò che ha reso possibile il lavoro di fabbrica e, quindi, lo sviluppo capitalistico. Presupposto per troppo tempo non detto delle enclosures è stata la “caccia alla streghe”, questo il grande insegnamento di Silvia Federici e, con lei, di un certo femminismo.

Come è noto la storia non ha un decorso lineare e ascendente, ma procede per salti e discontinuità, arretramenti e giri a vuoto, arresti e improvvise accelerazioni. E mai come oggi, in una rinnovata fase di ristrutturazione capitalistica, non solo l'idea di progresso torna a mostrare il suo volto propriamente ideologico, ma l'eterogeneità temporale che caratterizza la produzione contemporanea – quella che tiene insieme hi-tech e nuove forme di lavoro schiavile – subisce una radicale intensificazione. Nuova accumulazione originaria che porta necessariamente con sé processi di rifeudalizzazione, quindi di inusitata ed efferata combinazione di arcaico e (post)moderno, brutale ricolonizzazione dei corpi stessi che, ancora una volta, colpisce in primo luogo le donne.

Bisogna partire da qui se, materialisticamente, si vuol comprendere il fenomeno della violenza di genere come fenomeno strutturale e non emergenziale. Bisogna partire da qui per capire e cogliere il senso profondo che lega le forme specifiche di sfruttamento del lavoro femminilizzato alle ultime e diverse proposte di legge che ambiscono, con rinnovata efferatezza, a controllare e catturare la facoltà riproduttiva delle donne, a distruggere l'accesso all'aborto, a limitare drasticamente la libertà di scelta. Perché ai processi di nuova accumulazione primitiva, spossessamento ed espulsione corrispondono sempre nuove tecniche di disciplinamento e governo dei corpi. Bisogna perciò, una volta di più, partire da qui per afferrare la straordinarietà e la centralità delle lotte delle donne che si stanno dando in tutto il mondo: dall'Argentina alla Polonia, dal Messico alla Turchia, dal Cile all'Islanda, dal Brasile all'Italia.

Un nuovo movimento femminista globale è nato da queste premesse, lo abbiamo visto a Rosario, Varsavia, Città del Messico, Istanbul, Santiago, Reykjavík, Sao Paolo, Roma. Il suo metodo è fatto di solidarietà, di creazione di nuove forme di mutuo sostegno e auto-difesa, di traduzione – Ni Una Menos, Non Una Di Meno, Not One Less –, nella consapevolezza che la partita in gioco ha a che fare con la riconfigurazione del comando capitalistico che, in quanto tale, si muove e agisce al di là dei confini nazionali. Un nuovo femminismo che è finalmente combinazione virtuosa e alleanza reale non solo tra diverse generazioni, ma anche e soprattutto tra diversi femminismi. Che ha rimesso al centro l'intersezionalità come pratica per immaginare forme di resistenza all'altezza dei dispositivi di controllo e di sfruttamento contemporanei, i quali sollecitano e intensificano la produzione delle differenze per estrarne valore. Riprendendo e riattualizzando le suggestioni del Black Feminism, del femminismo decoloniale e queer, si tratta di andare oltre l'idea di un ipotetico essenziale femminile, di praticare l'intersezione delle differenze e delle lotte delle e dei subaltern* del mondo per sovvertire i meccanismi di sussunzione e cattura e imporre nuove pratiche di liberazione e autodeterminazione.

In tal senso la marea che è scesa in piazza il 26 è stata (e vuole essere) una marea parziale, di parte – la “parte dei senza parte”, direbbe Rancière –, che ha intrecciato e combinato assieme le rivendicazioni delle donne con quelle delle soggettività transfemministe, delle e dei migranti, delle studentesse e degli studenti, delle e dei precari. La produzione contemporanea, infatti, fa leva sulla cosiddetta femminilizzazione del lavoro, categoria con la quale si intende non solo la generalizzazione a tutta la forza lavoro di ciò che storicamente ha caratterizzato il lavoro femminile – intermittenza, supplementarietà, gratuità –, ma anche la messa a valore delle forme di vita, delle capacità di cura e relazionali e, quindi, il divenire labile del confine tra produzione e riproduzione, il divenire immediatamente produttivo della riproduzione.

È dalla materialità delle loro vite che le donne in tutto il mondo si stanno sollevando, affermando un nuovo ordine del discorso rispetto al problema della violenza di genere: violenza allora non è solo quella fisica, il cui ultimo e tragico esito è il femminicidio, ma quella generata da un sistema complessivo di produzione e sfruttamento che utilizza strutture arcaiche e patriarcali, di segmentazione e segregazione sociale. Si articola ed esprime sui luoghi di lavoro, attraverso le molestie e le discriminazioni, la disparità salariale, i sotto-compensi, il lavoro gratuito, attraverso l'assenza di un welfare universale e individualizzato capace di garantire l'indipendenza economica e quindi una reale possibilità di autodeterminazione, nelle strutture sanitarie pubbliche, nelle “crociate anti-gender” tra i banchi di scuola, negli sgomberi e nel definanziamento dei centri anti-violenza e dei presidi delle donne. Ancora, violenza è quella che vuole le donne vittime, silenziose e addomesticate, che pretende di tappare le loro bocche, di oscurarle mediaticamente quando queste tornano a gridare, ad affermare la propria potenza e libertà.

Ed è da qui, dalla parzialità dei corpi delle donne su cui è inscritta la coesistenza e l'intreccio di produzione e riproduzione che può ripartire un movimento radicale, capace di farsi moltitudine, in grado di opporsi alle più complessive logiche e politiche neoliberali, all'intensificazione dello sfruttamento, al controllo della vita in quanto tale.
Fiere di essere incompatibili con questo sistema, le donne si sono rimesse in movimento: a Roma, lo scorso 27 novembre, la marea si è raccolta in un'assemblea che ha visto la partecipazione di oltre 1500 persone e ha iniziato il lavoro di scrittura dal basso di un Piano Femminista contro la violenza che tenga conto della complessità e dell'ampiezza del discorso al riguardo e, quindi, delle nostre rivendicazioni su salute, libertà di scelta, lavoro e welfare, educazione e formazione, nuovi modelli di mutualismo e auto-difesa. Rivendicazioni che non si inscrivono semplicemente ed esclusivamente nella cornice delle politiche istituzionali, ma che vogliono farsi – e già sono – immediatamente strumento di lotta e trasformazione.
Per questo è stato accolto anche a Roma, come ormai in 22 paesi in tutto il mondo, l'appello delle argentine che lancia lo sciopero globale delle donne per il prossimo 8 marzo 2017. 
Il mondo dovrà fare esperienza di cosa significa “un giorno senza di noi”, senza le donne, senza quella parzialità che è diventata paradigma dei modi contemporanei dello sfruttamento. Si tratterà allora di capire cosa vuol dire oggi bloccare la produzione e la riproduzione globali, la messa a valore delle cosiddette soft skill, dei nostri stili di vita, dei generi che ci vengono imposti, del lavoro invisibile e gratuito. Uno sciopero sociale e politico, quindi, che sia anche innanzitutto sciopero dai generi, blocco e sovversione dei meccanismi di cattura e controllo delle differenze e delle soggettività. Reinventare la pratica dello sciopero a partire dalla parzialità femminista, questa è la sfida, ricostruire il comune dello sciopero muovendo dal punto di vista di questa moltitudine differenziata, tornare a far male al capitale, a inceppare l'ingranaggio, con la tensione di chi vuole e pretende un cambiamento radicale. Da oggi la marea ritorna in movimento, al grido di “Se la nostra vita non vale, producete senza di noi!” inonderà le strade di tutte le capitali globali, bloccherà il mondo.
Chi ha paura della marea, di questa marea, inizi a tremare.

fonte: http://www.dinamopress.it/news/chi-ha-paura-della-marea