martedì 30 settembre 2014

Il silenzio degli innocenti

L’aula era pressoché vuota, occupata da noi che non eravamo più di quindici studenti, le palpebre alzate erano forse anche meno. La professoressa ci osservava incuriosita dall’alto della sua cattedra, per niente scoraggiata dall’atteggiamento svogliato e disinteressato della sua platea. Dopo le premesse del caso, arrivò la domanda che per prima scosse le nostre sedie.

«Chi di voi è femminista?»

Una coltellata. Per me, che ero convinto di partecipare a un innocente corso sui generi cinematografici, ma anche per gli altri, che probabilmente non si aspettavano di dover abbracciare certe anacronistiche visioni politiche per frequentare un insegnamento dedicato al genere e al cinema. Tuttavia, ad alzare la mano furono in due: due ragazze che, con fare non troppo timido, ammisero che sì, potevano dichiararsi femministe. Una aveva capelli corti e biondi, quasi bianchi, e indossava una felpaccia nera slabbrata insieme a una collana decisamente eccentrica. L’altra, scarpe borchiate sotto il banco, esibiva diversi piercing.

«Chi di voi sa cos’è il femminismo?»

Silenzio. Anche le due ragazze, cui forse mancò il coraggio di perseverare nel loro anticonformismo o colte, magari, dal dubbio di aver già confessato un crimine disgustoso con la loro precedente ammissione, abbassarono il volto. Fu allora che l’insegnante sfoderò inaspettata la sua arma: un oggetto di antiquariato che tutti abbiamo conosciuto, ma ormai risposto sugli scaffali più polverosi delle nostre case, a far sfoggio di sè. Il dizionario.

Femminismo, s.m.
Movimento sorto nell’Ottocento che propugna la perfetta parità di diritti fra la donna e l’uomo.

«E il maschilismo, chi sa darmi una definizione? »
 «…»
Maschilismo, s.m.
Atteggiamento per cui l’uomo si reputa superiore alla donna in contesti sociali e privati.

Quelle due definizioni da scuola elementare ci sorpresero, ci trovarono impreparati, a noi più che ventenni. A noi, miseramente convinti di saperne già abbastanza di cinema e ruoli sessuali (abbiamo superato l’adolescenza, su, altro che corsi universitari) per concludere che tutto fosse riducibile alla donna da cartellone e al gentiluomo un po’ padre un po’ porco.
La limpidezza e la semplicità di quelle spiegazioni attivarono la nostra coscienza in modo netto e disturbante, più di quanto avrebbero potuto fare articoli specialistici o famosi saggi sul tema.

Femminismo e maschilismo, quei due termini così speculari fra loro e da noi impiegati sempre con il tono solenne e scandalizzato tipico di tutti gli ismi passati alle cronache, si rivelarono ciò che di più distante poteva esserci l’uno dall’altro, e dai significati che sempre avevamo attribuito loro.
L’uno era storia, l’altro biologia.
L’uno era stato costruito più di un secolo prima, l’altro esisteva da sempre, nato con l’uomo stesso.
L’uno era volontà, l’altro predispozione innata.
L’uno era cultura, l’altro natura.

Bimbi_classe

Come tutto ciò avrebbe avuto a che fare con la cultura audiovisiva ci fu chiaro fin da quel momento. Dopo che quelle poche parole ci avevano liberato dalle conoscenze stereotipate con cui eravamo cresciuti, ci chiedevamo, a quali conclusioni saremmo giunti se fossimo riusciti ad analizzare un testo filmico svincolandoci dal nostro odioso sguardo maschile? Quali verità sulla rappresentazione dei generi ci avrebbero sconvolto almeno quanto lo scoprire che i maschilisti non erano soltanto quelli che abusavano delle loro compagne, né le femministe solo lesbiche incazzate con i capelli corti? Quanto lavoro avremmo dovuto fare, ancora.

«Chi di voi è femminista?»

La professoressa ripetè la domanda a fine lezione. Quindici mani si levarono decise. C’erano le due ragazze alternative, studenti chini sugli appunti, amiche che scuotevano il capo indignate, qualcuno che guardava fuori dalla finestra. Eravamo tutti, lessicalmente, consapevolmente, femministi.

fonte: zeroeuno

Donne che non capiscono le donne

Da fine luglio 2014 il dibattito pubblico americano, e poi di tutto il mondo, è stato infiammato da quello che più che un hashtag, è apparso subito come una vera e propria arma politica: #WomenAgainstFeminism.

Molte donne – soprattutto teenager americane – hanno iniziato a pubblicare degli autoscatti con dei cartelli che spiegano perché hanno deciso di rinnegare il femminismo.

Il successo di questa iniziativa collettiva ha destato scalpore, problematizzando la questione già ampiamente dibattuta sul senso che il femminismo debba assumere in una contemporaneità in cui molte delle rivendicazioni storiche del movimento sembrano essere raggiunte.


Le difficoltà nella costituzione di una comunità di donne che sono state aggravate dall’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione erano, in realtà, già state individuate da Simone De Beauvoir che, nel suo Il secondo sesso (1949), spiegava che i movimenti delle donne non sono paragonabili ad altri noti gruppi di resistenza come i “negri” d’America, gli ebrei dei ghetti o gli operai delle fabbriche.

«Le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, legate ad alcuni uomini – padre o marito – più strettamente che alle altre donne. […] Il legame che unisce [la donna] ai suoi oppressori non si può paragonare ad alcun altro».

Tra i vincoli creati dalla casa, dal lavoro e dalle condizioni sociali c’è, infatti, l’entità della “coppia” come struttura basilare della famiglia, «unità fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l’una all’Altra».

Oltre a questo c’è, però, dell’altro. Lo esplicita Monica Lanfranco nel suo articolo Femminista a chi? (2012):
«C’è, ed è storia, un forte elemento di ingratitudine e di ignoranza delle giovani donne verso quelle femministe che hanno preso parola, prima di loro, per se stesse, ma anche per chi sarebbe venuta dopo di loro. La cultura nella quale la maggior parte di loro è cresciuta ha raccontato il femminismo in modo distorto, caricaturale, o semplicemente l’ha rimosso».

Le Women Against Feminism possono essere legittimamente tacciate d’ignoranza visto che disprezzano quello che le loro nonne hanno comodamente consegnato loro dopo molte lotte o la colpa è del contesto culturale che non ha saputo trasmettere i veri valori del femminismo alle nuove generazioni?


È innegabile che, oltre ad avere delle evidenti difficoltà strutturali nel formarsi, come già aveva osservato De Beauvoir, il movimento femminista sia stato, nel corso della storia, oggetto di interpretazioni scorrette e devianti, mal percepito e quindi non capito.
Ancora oggi prevale una visione offuscata del fenomeno, che dà adito a stereotipi come quello delle lesbo-femministe avverse agli uomini o a convizioni false come quella per cui i femministi rivendicherebbero la superiorità del genere femminile.

La conseguenza più allarmante è che questo atteggiamento diventa virale, e prese di posizione contrastanti e strampalante, come quelle delle Women Against Feminism, rischiano di ottenere molta risonanza mediatica.

Quale può essere la contromossa, se ce n’è una? Fare informazione. Parlare di che cosa è stato e cosa rappresenta il movimento delle donne. Invitare ad aprire un vocabolario e cercare la definizione di “femminismo”, o in alternativa leggere questo articolo.
Bisogna far conoscere il femminismo nelle scuole, dove si è sempre prodighi a insegnare gli incipit dei poemi, i re di Roma e le leggende dell’antichità, mentre che i femministi non sono animali mitologici, quello no, non lo spiega mai nessuno.

Fonte: Zero-e-Uno

domenica 28 settembre 2014

India, ragazze inventano jeans anti-stupro

I pantaloni sono in grado di localizzare la vittima e inviare un segnale alla stazione di polizia più vicina


In India la violenza sessuale rappresenta una vera e propria piaga sociale. Quasi ogni giorno si sente parlare di donne stuprate e, nei peggiori casi anche uccise. Così a due ragazze è venuto in mente di creare dei jeans antistupro.
 
Le creatrici di questo indumento sono Diksha Pathak e Anjali Srivastava, due ragazze rispettivamente di 21 e 23 anni provenienti da Varanasi, India del Nord. La prima studia ingegneria, la seconda comunicazione.

“Avevamo in mente questo progetto da molto tempo”, dichiara Diksha Pathak. “Mio padre - continua la giovane - si preoccupa spesso ogni volta che io torno a casa tardi”.

I pantaloni funzionano in modo che venga inviato alla stazione di polizia più vicina il segnale. Difatti rispetto a normali jeans, questi hanno incorporato un Gps e un Gsm, così da localizzare il luogo della vittima. Per la messa in funzione occorre una batteria sostituibile dopo tre mesi. Inoltre è possibile risalire alla proprietaria tramite un sistema di software interno. I jeans sono di colore rosso e costano 25 paise.

Secondo il governo indiano c’è uno stupro ogni 22 minuti. Un numero impressionante che ha suscitato una dura reazione da parte dell’Onu. Per la commissione infanzia delle Nazioni Unite, le autorità indiane non fanno abbastanza per combattere il fenomeno. Il primo stupro risale al dicembre 2012, quando una ragazza di Nuova Delhi venne rapinata, violentata e uccisa da quattro uomini. Il tutto su un autobus in movimento. Gli imputati sono stati condannati alla pena di morte. Stesso esito per tre giovani che avevano violentato - ma non ucciso - una giornalista a Mumbai.

Non è la prima volta che vengono sperimentati strumenti contro le violenze. Già lo scorso anno tre studenti avevano inventato una biancheria intima anti-stupro, con un dispositivo di corrente elettrica in grado di stordire l’aggressore. Oggi viene presentata questa nuova idea per prevenire e cercare di eliminare sempre più gli stupri.

“Questi terribili stupri di gruppo che noi abbiamo così tanto sentito di recente, hanno scioccato me e la mia collega nel profondo”, continua Pathak. “Speriamo - conclude – che nessun’altra donna debba mai soffrire così, portando i nostri vestiti.”

Quelle guerriere peshmerga che fanno paura ai jihadisti

Gli islamisti rinunciano alla lotta perché temono di non andare in Paradiso se uccisi da una donna. In Siria 130 mila profughi curdi in fuga verso la Turchia.
 
Le prime guerriere curde risalgono addirittura ai tempi di Saladino
23/09/2014 - Maurizio Molinari corrispondente da Gerusalemme 
 
Tagliateste sanguinari, capaci di eccidi di massa e di trasformare bambini in kamikaze ma intimoriti dalla sola vista di una donna in divisa: a svelare un possibile tallone d’Achille dei miliziani jihadisti dello Stato Islamico (Isis) sono i servizi d’intelligence americano e britannico che hanno rilevato una ricorrente anomalia nei movimenti delle unità fedeli al Califfo Al-Baghadadi.  
 
Ad alzare il velo sui contenuti dei rapporti militari è Ed Royce, presidente californiano della commissione Affari Internazionali della Camera dei Rappresentanti di Washington, facendo sapere che «i soldati di Isis sembrano credere che se vengono uccisi in battaglia da un uomo vanno in Paradiso accolti da 72 vergini mentre se a ucciderli è una donna la sorte è differente perché non trovano le vergini». È stata l’osservazione dei movimenti delle unità di Isis nel Nord della Siria e soprattutto dell’Iraq a portare a tale deduzione perché in più occasioni quando i jihadisti si sono trovati di fronte unità femminili di peshmerga curde hanno preferito evitare rischi.  
 
Le prime a notare tale anomalia nel comportamento di un nemico altrimenti spietato e apparentemente indomabile sono state proprio le donne-peshmerga, comunicando ai comandi di Erbil e Suleymania la «propria soddisfazione per essere riuscite a fermare l’avanzata di Isis» quasi senza colpo ferire. In alcuni casi, le combattenti curde hanno testimoniato di aver visto con i loro occhi «i combattenti di Isis voltare le spalle e andare via». Alla base di tali comportamenti vi sarebbero dei sermoni di imam salafiti fedeli ad Isis che avrebbero detto ai jihadisti di «non essere sicuri» sulla destinazione «in un Paradiso con 72 vergini» per «chi viene ucciso in combattimento dalle mani di una donna». 

Per Usa, Gran Bretagna e Francia, impegnate ad accelerare l’invio di armamenti pesanti ai curdi iracheni, si tratta di una notizia che può avere conseguenze tattiche, ovvero portare ad addestrare e dunque schierare un maggior numero di donne-peshmerga. Al momento i jihadisti del Califfo infatti premono sulle aree controllate dai curdi tanto in Iraq quanto in Siria, dove l’offensiva attorno alla città di Kobani ha portato nelle ultime 72 ore oltre 130 mila civili a cercare rifugio oltre il confine turco.  

Il reggimento femminile dei peshmerga è uno dei punti di forza della difesa del Kurdistan iracheno dal 1996, quando venne creato con appena 11 reclute dall’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani per sottolineare la volontà di integrare le donne nel nascituro Stato. Ora il reggimento conta quattro battaglioni, con un comandante per brigata e un corpo ufficiali fino al grado di colonnello. Lamiah Mohammed Qadir è uno dei comandanti più popolari, tiene le sue donne-soldato schierate nella provincia di Dyala e spiega così le mansioni svolte: «Siamo in prima linea a Daquq, Jalawla e Khanaqin, partecipiamo alle battaglie e contribuiamo anche a trasportare equipaggiamenti ai reggimenti di uomini»

Finora le donne-pershmerga non hanno subito vittime e Chelan Shakhwan, una delle veterane, descrive così la formazione all’arte del combattimento: «È un addestramento duro, con esercizi su armi, resistenza fisica e preparazione intellettuale». Il soldato Shaimaa Khalil spiega alla Bbc che «la nostra motivazione contro Isis è forte, vogliamo combattere per difendere il Kurdistan e anche difendere noi stesse perché da quanto visto a Mosul i jihadisti attaccano proprio noi donne». Non poche delle donne-pershmerga sono tiratori scelti ed hanno alle spalle la guerra del 2003 contro le truppe di Saddam. «Molte di noi hanno figli e mariti - aggiunge Shakhwan - ma sono felice di fare il mio dovere proteggendo il Kurdistan». D’altra parte le prime donne curde combattenti di cui si ha notizia risalgono al XII secolo quando fu il Saladino a volerle al suo fianco, apprezzandone dedizione e addestramento.

La violenza maschile sulle donne al di fuori dell'emergenza

UOMINI E DONNE DIALOGANO SULLA VIOLENZA MASCHILE
CONTRO LE DONNE

Workshop organizzato dalle associazioni LeNove, Maschile plurale e D.i.R.e.

SABATO 4 OTTOBRE ore 10.30
 
Presentazione della giornata, a cura delle associazioni promotrici; interventi liberi; ore 17 conclusioni.

 

L’iniziativa è particolarmente interessante perché è strutturata in termini innovativi: a partire infatti dalla realtà delle attività pluridecennali dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne maltrattate e dal fatto che negli ultimi anni sono nati anche in Italia centri e progetti rivolti agli uomini autori di violenza – finora 24 esperienze censite - il seminario non prevede relazioni illustrative e interventi classici, ma chiede ai partecipanti di pronunciarsi su quesiti stringenti, senza sorvolarli con un dire ben costruito, senza sfuggire all’incalzare di domande che la realtà ci pone. A partire dalla domanda stessa se è possibile un lavoro comune tra donne e uomini sulla violenza esercitata dagli uomini contro le donne – e la risposta non sembra affatto scontata. Per chiedersi insieme quali professionalità e soprattutto quale impostazione politica e culturale sottendono i nuovi Centri rivolti agli uomini:
 c’è un pericolo che l’ascoltare il disagio degli uomini significhi deresponsabilizzarli?
 E i Centri riescono a parlare alla comunità in termini di prevenzione o si limitano ai singoli individui? Vale la pena investirvi in tempi di risorse scarse?

Sono domande provocatorie – la qualità dei centri rivolti agli uomini è stata documentata recentemente in Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento (a cura di A. Bozzoli, M. Merelli, M.G. Ruggerini, Ediesse, Roma, 2013) - ma utili per un dibattito vero. E altre domande più generali si aprono: il rapporto con gli uomini più coscienti rende il femminismo superato, come emerge dal recente dibattito in America, o è proprio il femminismo che ci dà ancora gli strumenti culturali per vedere la crisi maschile e che ci fa dire che le derive degli uomini sono anche un nostro problema?

Ed è sempre il femminismo una nostra bussola, per evitare di vedere la violenza come fenomeno indifferenziato – dalle donne violente alla violenza verso i bambini, alla violenza sociale, politica, militare – e per saper distinguere, in questo mare violento, la violenza di genere e la “questione maschile” che la sottende, che è un fenomeno specifico, che si collega alla storia del patriarcato e della sua crisi.

Ed ancora: un femminicidio ogni due giorni, l’emergenza e l’allarmismo che ne derivano, non inducono spesso i media e l’opinione pubblica a banalizzare i fenomeni di violenza? A determinare reazioni volte solo alla sicurezza e non alla prevenzione?
 
(Isabella Peretti, sulla base di un colloquio con Maria Grazia Ruggerini,
Ass.LeNove)
 


04/10/2014
Convegno worshop Ore 10:30 - 17:00
Entrata: Via della Lungara 19
Organizza: LeNove, Maschile plurale e D.i.R.e.
Luogo: Centro congressi Carla Lonzi

lunedì 22 settembre 2014

Prove di sharia a casa nostra?

 
Una ragazza del Bangladesh è stata aggredita a Mestre da un gruppo di connazionali. Le sue colpe? Studia e veste all'occidentale. Attendiamo l'indignazione delle anime belle e dei musulmani "moderati"...
 
Mideast Saudi ArabiaUna studentessa del Bangladesh, musulmana, di 21 anni, a Mestre è stata aggredita da un gruppo di uomini, per strada, mentre rincasava. È riuscita a scappare, a rifugiarsi nell’appartamento che condivide con un’altra studentessa dell’Università di Venezia e a chiamare la polizia. Tuttavia non ha avuto il coraggio di far nomi, né tantomeno di denunciare gli aggressori, perché teme rappresaglie alla sua famiglia.

Sarebbe un fatto di cronaca come un altro, riportato solo dalla stampa locale (la fonte è il Gazzettino di Venezia-Mestre), se non fosse che:
 a) la ragazza è musulmana,
 b) i suoi aggressori sono correligionari che lei conosceva,
 c) il motivo dell’aggressione è ideologico e religioso.
Infatti l’hanno attaccata, prima di tutto, perché studiava, poi perché vestiva all’occidentale.

La polizia ha capito che non fosse il caso di andare oltre con le domande, anche perché, in casi come questi, la rappresaglia sulla famiglia della ragazza arriva veramente. Ora si confida che le forze dell’ordine, che hanno allertato la Digos, seguano veramente il suo caso e la proteggano, che non aspettino di trovarsi con una studentessa morta prima di indagare sui colpevoli.
A questa ragazza del Bangladesh è andata relativamente bene. Una sua coetanea originaria del Pakistan, Hina Saleem, a Brescia è stata decapitata per volere della famiglia nel 2006. Anche lei è stata uccisa perché si comportava come una ragazza occidentale: lavorava in una pizzeria e frequentava il fidanzato italiano. In quel caso la giustizia è stata abbastanza rapida. Il processo, con rito abbreviato, si è concluso nel novembre del 2007 con la condanna del padre e dei due cognati a trent’anni di carcere per “omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di cadavere”, mentre lo zio, che ha ammesso di aver partecipato alla sepoltura ma non al delitto, ha avuto una condanna molto più lieve (2 anni e 8 mesi), ed è stato già scarcerato.

Il caso di Hina Saleem è passato alla storia, molti altri no. Chi scrive ha assistito al processo a Brescia e in quella occasione, Dounia Ettaib, di Acmid (Associazione Comunità Marocchine delle Donne in Italia) aveva dichiarato «Dal 1997 al 2004 sono state uccise cinque donne: una solo perché voleva lavorare, una perché non voleva portare il velo, una perché voleva sposare un italiano, una perché voleva continuare gli studi, una perché non voleva sposare un uomo scelto dal padre.
Ci sentiamo sempre dire che sono “vittime del maschilismo” come ha affermato il ministro Pollastrini proprio per il caso di Hina. Ma non prendiamoci in giro: sono vittime del terrorismo, di un’ideologia che predica un Islam sbagliato. Io posso essere vittima del maschilismo se subisco una violenza sessuale, se vengo discriminata sul lavoro, se mi viene negato il diritto di vivere come gli uomini, ma quando una donna viene ammazzata perché si è rifiutata di obbedire alle regole della legge islamica, allora è una vittima del terrorismo islamico».

A questo punto, quante vittime del terrorismo islamico, di questo “Islam sbagliato” si nascondono dietro ai femminicidi, di cui veniamo a conoscenza tutte le sante settimane?
L’aspetto inquietante di questo fenomeno è la nascita spontanea di ghetti con proprie leggi e di polizie private, privatissime e familiari che le implementano nel modo più atroce possibile. Impedire a una ragazza di studiare o di lavorare è una cosa che sentiamo alla televisione, quando si parla di Boko Haram (letteralmente: “l’istruzione occidentale è peccato”) in Nigeria o dei Talebani in Afghanistan, o dell’Isis in Iraq e Siria. Stentiamo a credere che qualcuno ragioni allo stesso modo anche in un quartiere di Venezia o Brescia. E soprattutto stentiamo a credere che qualcuno possa applicare, con la forza, una legge che prevede anche la pena di morte, in un Paese, come l’Italia, che la pena capitale l’ha abolita da quasi 70 anni. Certo, possiamo dire di esserci abituati, visto che negli anni ’70 c’erano le Brigate Rosse che applicavano in Italia la legge dell’Unione Sovietica, con tanto di tribunali del popolo ed esecuzioni capitali. Ma non è un’attenuante: proprio perché ci siamo passati dovremmo capire come reagire.

Se anche in Italia dovesse nascere una polizia islamica, come avviene in altre città europee, i primi a lasciarci la pelle sarebbero proprio i musulmani, quelli giudicati troppo occidentalizzati, laici, o “apostati” (anche se non hanno mai cambiato religione), o scismatici nel caso siano parte della minoranza sciita. Per fare un altro parallelo con le Br: le loro vittime erano soprattutto socialisti e sindacalisti, gente di sinistra, insomma, colpevole di “tradimento” della causa rivoluzionaria. Così come la sinistra più ragionevole è stata fondamentale per affrontare e sconfiggere il brigatismo, anche i musulmani laici (dire “moderati” può trarre in inganno) sono fondamentali per denunciare i soprusi di chi vuole instaurare la legge coranica. La polizia non può tollerare la nascita di istituzioni parallele, può intervenire se qualcuno si mette il corpetto della Shariah Police e inizia a pattugliare le strade.
Il sistema educativo dovrebbe (ma non lo fa) aiutare i musulmani a emanciparsi dalle imposizioni degli jihadisti nostrani. Ma questo è, ed è destinato a rimanere, soprattutto un conflitto tutto interno all’islam e alle comunità di musulmani italiani. Che i moderati si sveglino. Prima che sia troppo tardi.

venerdì 19 settembre 2014

Saigon: l'angelo dei poveri

A Saigon Huong Tieu  e Nga Mai, la sua assistente, operano da anni alzandosi presto al mattino, iniziando a lavorare all’alba senza fermarsi mai fino a sera.

di Nok Tao

Son tornato a trovare Huong Tieu!
Non ne potevo fare a meno, lo sentivo come un desiderio della mia anima, una voce sottile che mi richiamava in quel vicolo stretto e polveroso di Saigon dove lei e Nga Mai, la sua assistente, operano da anni alzandosi presto al mattino, iniziando a lavorare all’alba senza fermarsi mai fino a sera quando crollano stremate dalla fatica, stanche ma felici, felici perché sono donne buone.

Chi è questo "angelo dei poveri" come la chiamano quaggiù? Chi è davvero Huong Tien Muynh? Provo a chiederglielo e lei mi guarda con i suoi occhi grandi e profondi rispondendomi:

"Non so davvero chi sono, davvero non ricordo molto della mia infanzia. Mi sovvengono spesso solo la polvere, il terrore, il rombo degli aerei, gli elicotteri sopra la mia testa, le bombe e la gente che piangeva, fuggiva. Tutto era paura intorno a me ed io ero una bambina sola, lo sai cosa vuol dire per una bambina essere sola con la paura?

Sono nata in un giorno intorno al 1968, ma non so ne dove e ne da chi. Ricordo solo una stazione quella di An Giang, una vecchia signora curva, con la gobba che vedendomi cosi sola, abbandonata vicino ai binari decise di portarmi con se. Era molto povera quella signora, ma tanto buona. Abbiamo vissuto per anni insieme nella stazione chiedendo elemosina,  pulendo le scarpe dei rari viaggiatori che scendevano. Si mangiava solo radici e erba  e, se si era fortunati, si riusciva a raccattare avanzi, ossa di pollo, teste di pesce o qualsiasi altra cosa potesse fermare quei terribili morsi della fame."

Huong Tieu sogna spesso  quei giorni e mi dice che vuole sognarli perche non debba dimenticare mai i dettagli del passato. Non vuole parlare della guerra, del napalm e del fosforo che bruciavano gli alberi e gli uomini, dei Vietcong, dei collaborazionisti o dei bastardi americani che le toccavano le parti intime masturbandosi. Huong Tieu vuole tenere quel dolore solo per se, chiuso nel pesante cofanetto dei ricordi di una orfana.

Nel 1978,  Huong Tieu aveva solo10 anni; il Vietnam usciva a pezzi da una guerra crudele che aveva seminato solo odio e miseria, l’economia era a pezzi, inesistente, nessuno viaggiava più se non i rari dipendenti dell’amministrazione pubblica nascente. La vecchia sapeva che i suoi giorni erano contati e che comunque non poteva più tenere con se Huong Tieu per cui non le sembrò vero incontrare una coppia di insegnanti che transitavano per An Giang che guardavano con gioia la bambina accarezzandola e chiese a loro di aver cura di quel piccolo angelo dagli occhi  tristi.

Fu breve il soggiorno in quella famiglia, il nuovo “papà ” voleva abusare della piccola, per cui Huong Tieu scappò  via e per anni visse sui treni nascondendosi ai controllori fino a quando una giovane soldatessa non ne ebbe pietà e la portò con se al campo militare, in caserma.
Lì, mi dice Huang Tieu si sentiva come un uccello dalle ali mozzate e non poteva sottrarsi alle "attenzioni" dei soldati che ogni giorno la vedevano come oggetto dei loro desideri. Fu allora che la buona soldatessa capì che era necessario per la ragazza andar via; le diede qualche soldo e Huang Tieu tornò alle sue stazioni, ai suoi treni fino a che arrivò a Saigon. Lì iniziò a girovagare, lavare vetri alle rarissime auto, raccattare spazzatura, asciugare piatti. Dormiva sotto i ponti o nella stazione degli autobus, sentiva che la sua vita non aveva alcun valore.

A 16 anni Huong Tieu era una donna gia vecchia, stanca di vivere, non aveva nulla, neanche la dignità!  Doveva farla finita, la sua vita era inutile, i giorni che passavano la stritolavano. Lì dal ponte sul fiume, in quella Saigon crudele sarebbe saltata per il suo ultimo viaggio!
Fu allora che sentì urlare un bambino, seguì il pianto e, non lontano, trovò un cucciolo di uomo solo e abbandonato come lei. Era una bambina, la chiamò Anh Doo ed il cuore le si scaldò. Una nuova sconosciuta energia la riempì tutta, interamente, fino all’ultima cellula del suo corpo.

In quella bambina aveva rivisto lei e le centinaia, migliaia di bambini abbandonati che non ce l’avevano fatta ed erano morti senza avere un nome, senza conoscere la carezza di un padre o il caldo abbraccio di una mamma. Lì, vicino a quel ponte capì che la sua vita era appena incominciata, tutta da vivere, da scoprire, capi che aveva uno scopo nel passaggio sulla terra, che doveva dedicarsi agli altri, a tutti coloro che soffrivano, ai diversi, ai "messi al bando", ai derelitti del nuovo Vietnam che nasceva sulle ceneri di ideologie bruciate e sacrificate all’egoismo di un mondo, di un sistema di vita che aveva attecchito anche qui portando ricchezza a pochi e sofferenza ed umiliazioni a tanti.

La campagna ed i contadini erano  più poveri di prima mentre le città dalle grandi attese attiravano sempre piu ragazzi di provincia che difficilmente trovavano un lavoro onesto e dignitoso.
Huong Tieu riuscirà con tanto impegno e con la sua conoscenza del cinese a fare fortuna, iniziando una attivita immobiliare con soldi presi in prestito, pian piano creando un fondo notevole di liquidità ed incrementando la sua attività di compravendita di case e terreni proprio nel momento in cui Saigon conosceva il vero "boom" edilizio.
La sua storia, il cammino del suo successo come donna d’affari sono ampliamente riportati sulla rete per chi ne fosse interessato, ma a me interessa di più il profumo di  pulito che  adesso emana questa donna, la bellezza che irradia  in questo minuscolo studiolo scuro che è il suo ufficio e quello che riesce a dirmi in perfetto inglese.
Tanti sono i ricchi, gli arrivati, nel nuovo Vietnam, ma pochissimi sono come lei, forse nessuno!

Ora Huong Tieu è qui con me, seduta a parlarmi mentre fuori ragazzi scaricano da un vecchio autocarro cartoni di tortine dolci omaggio di una fabbrica di dolciumi che destina il suo ‘"invenduto"’ alla organizzazione umanitaria di questa splendida donna.
Passeggio intorno alla casa  e vedo le grandi ceste dove la gente di Saigon  ripone abiti usati, a volte solo stracci, destinati ai poveri ragazzi di qua. Due "ospiti" di Huong Tieu, giovani sulla ventina, tossicodipendenti, mi fanno vedere gli oggetti che hanno imparato a realizzare con l’aiuto di Nga Mai, messi in bella mostra per i rari visitatori che capitano in questa zona cosi fuori mano di Saigon. Alle 13.30 arriveranno tutti coloro che non hanno niente da mangiare per ricevere un piatto di riso e qualche dolcetto. Oggi c’è solo quello ma  può bastare a chi non ha nulla.

L’angelo dei poveri ora non  ha una bella casa, cosi come avrebbe potuto avere se non avesse destinato (come continua a fare) tutti i suoi proventi alla sua causa, ma a lei non interessa avere quadri, vestiti o letti di piume, lei ha negli occhi e nel fondo della sua anima ancora quel ponte sul fiume.

Nel 2001 dopo innumerevoli difficoltà riesce a far riconoscere dal governo vietnamita, la sua associazione come "associazione per la carità" diventando ogni giorno più importante. I rapporti che Huong Tieu riesce a costruire con le sue relazioni  e con i vecchi conoscenti di Taiwan, Cina, Hong Kong ,Canada e Stati Uniti riescono a far si che le arrivino sempre più fondi ed adozioni a distanza per i suoi piccoli. Huong Tieu oggi ha oltre 60 centri di accoglienza sparsi per il Vietnam di cui uno grandissimo nella provincia di Saigon con centinaia di bambini che vivono in comunità, studiano, si educano all’amore e alla vita nell’attesa di "diventare grandi".

Huong Tieu vuole vivere con i suoi ragazzi, non pensa ad altro che a loro, continua a dedicare la sua vita a chi soffre in un Vietnam sempre piu consumista e spregiudicato.
Io lo so Huong Tieu, io ti conosco ormai bene, tu sei una donna felice, una donna che ha realizzato un sogno e che ha ancora tanto da dare, hai solo 42 anni, anche se dici di esser ormai vecchia. Pensa  Tu hai l’energia di una ragazzina, te ne frega di esser desiderata, tu hai nella testa solo l’impegno ed il sacrificio che solo chi ha mangiato la polvere conosce. Io lo so "piccola grande donna" che nel tuo cuore c’è ancora la vecchia stazione, i treni che vanno e vengono ed una bimba scalza che sotto la pioggia agita la manina aspettando una testa di pesce, magari un fiore!

PER CHI VOGLIA SAPERNE DI PIU:

La storia della vita di Huong Tieu

website dell’organizzazione’’Que Huong Charity’’

martedì 16 settembre 2014

La mia rivoluzione inizia dal corpo

di EVE ENSLER

La mia rivoluzione inizia nel corpo
Non aspetta più
La mia rivoluzione non ha bisogno di approvazione o permesso
Avviene perché deve avvenire in ogni quartiere, villaggio, città o cittadina
nei raduni delle tribù, tra i compagni di studio, tra le donne al mercato, sull'autobus


Può essere graduale e morbida
Può essere spontanea e rumorosa
Potrebbe già stare avvenendo
La puoi trovare nel tuo armadio, nei tuoi cassetti, nel tuo stomaco, nelle tue gambe, nel moltiplicarsi delle tue cellule, nella nuda bocca di capezzoli turgidi e seni prorompenti


La mia rivoluzione cresce al ritmo del fremito insaziabile tra le mie gambe
La mia rivoluzione è disposta a morire per questo
La mia rivoluzione è pronta a vivere in grande
La mia rivoluzione sta rovesciando quello stato mentale chiamato patriarcato


La mia rivoluzione non avrà una coreografia anche se comincerà con alcuni passi familiari
La mia rivoluzione non è violenta ma non ha paura di rischiare forti dimostrazioni di resistenza che potrebbero farla scivolare in qualcosa di nuovo
La mia rivoluzione è in questo corpo
In questi fianchi atrofizzati dalla misoginia
In questa mandibola messa a tacere dalla fame e dall'atrocità


La mia rivoluzione è
Connessione non consumo
Passione non profitto
Orgasmo non proprietà
La mia rivoluzione è della terra e verrà da lei
Per lei, grazie a lei


Capisce che ogni volta che perforiamo o trivelliamo
O bruciamo o violiamo gli strati della sua sacralità
violiamo l'anima del nostro futuro
La mia rivoluzione non si vergogna di spingere il mio corpo giù
Sul suo suolo fangoso davanti a Banani, Cipressi, Pini, Kalyaan, Querce, Castagni, Gelsi, Sequoie, Sicomori
Di chinarsi senza vergogna a uccelli giallo fosforescente e tramonti rosa e blu, a buganvillee viola da far scoppiare il cuore e mari verde acqua


La mia rivoluzione bacia volentieri i piedi di madri e infermiere e cameriere e donne delle pulizie e bambinaie
E guaritrici e tutte coloro che sono vita e danno vita
La mia rivoluzione è in ginocchio
Sulle mie ginocchia davanti ad ogni cosa sacra
E a coloro che portano fardelli creati dall'impero dentro e sulle proprie teste e sulle propie schiene e nei propri cuori


La mia rivoluzione richiede abbandono
Si aspetta l'originale
Si affida a piantagrane, anarchici, poeti, sciamani, veggenti, esploratori del sesso
Prestigiatori, viaggiatori mistici, funamboli e coloro che vanno troppo lontano e sentono troppo,


La mia rivoluzione arriva inaspettatamente
Non è ingenua ma crede nei miracoli
Non può essere classificata, definita, marchiata
O perfino collocata
Offre profezie non ricette


E' determinata da mistero e gioia estatica
Richiede ascolto
Non è centralizzata anche se tutte sappiamo dove stiamo andando
Avviene gradualmente e tutta a un tratto


Avviene dove vivi e ovunque
Capisce che le divisioni sono diversioni
Richiede di stare seduti immobili e fissare a fondo i miei occhi
Andare avanti

 
My revolution begins in the body
It isn’t waiting anymore
My revolution does not need approval or permission
It happens because it has to happen in each neighborhood,village, city or town at gatherings of tribes,fellow students, women at the market, on the bus
It may be gradual and...
 

martedì 9 settembre 2014

E se la sicurezza in se stesse fosse questione di buone abitudini?

 
E se un buon consiglio sul lavoro arrivasse da una ventenne? Se non credete che sia possibile, provate a leggere i post di Young Women Network, il gruppo di ragazze che ha iniziato a promuovere il networking in Università e poi…non si è più fermato. Questo è quello di Teresa Budetta che ci fa riflettere su come sia facile perdere la fiducia in se stessi e poi recuperarla, contando prima di tutto sulle nostre capacità. Senza dimenticare l’importanza dei Mentor.

«Fin da piccola sono stata una studentessa modello, le uniche due volte che ho marinato la scuola, mi sono chiusa in biblioteca a recuperare i capitoli arretrati di filosofia, l’idea di essere impreparata mi terrorizzava, perché volevo essere la prima della classe. È stata proprio quella determinazione a portarmi a Milano, dove mi sono trasferita a 18 anni per studiare all’Università Bocconi e che da qui mi ha portato all’estero, prima in America e poi in Spagna. Tra i banchi delle Università mi sentivo a mio agio, ancora di più tra quelli delle biblioteche.
Poi il trauma: l’ingresso nel mondo del lavoro. 
Il mio primo stage è stato in una banca d’investimento a Londra, dove poco più che ventenne, mi sono sentita come un topolino lanciato in una gabbia di leoni, completamente fuori posto. L’autostima che avevo fomentato con gli ottimi voti e le certezze sul tipo di lavoro che volevo fare erano crollate, così in appena un paio di mesi. Per farsi notare non bastava fare i compiti, il mondo del lavoro è pieno di persone ambiziose e di talento, per emergere bisogna essere “imprenditori di se stessi”, imparare a vendersi e farsi avanti. Avevo molte idee, ma ogni volta che dovevo proporle al mio capo, un uomo non conosciuto per dolcezza e gentilezza, mi assaliva una inspiegabile sensazione di nausea. Avrei preferito qualsiasi cosa piuttosto che confrontarmi con lui.
Ma l’ansia di dovermi promuovere non si limitava all’ambiente lavorativo: durante gli eventi di networking avevo le stesse difficoltà. I miei amici, soprattutto gli uomini, appena intravedevano una persona interessante si lanciavano a conoscerla, io invece restavo vicina alle mie amiche, quasi avessi paura di perdermi.
La mancanza di sicurezza e l’incapacità di sostenere il mio personal branding, come si direbbe oggi, mi ha danneggiata in molte occasioni.
Per molto tempo ho creduto di essere l’unica ad avere questo problema, un giorno stanca di restare dietro le quinte, ne ho parlato con Alessandra, ex-compagna dell’Università e co-fondatrice di Young Women Network, ed ho capito che in realtà mi sbagliavo, ero una problema condiviso solo che nessuna lo ammetteva ad alta voce. Durante gli eventi organizzati da YWN, ho trovato il coraggio di condividere questa difficoltà con diverse mentori ed ho scoperto che molte di loro all’inizio della loro carriera avevano queste paure, ma sono riuscite a superarle.
Il mentoring ha svolto un ruolo fondamentale nel mio percorso di crescita personale e professionale. Confrontarmi con donne di successo, talento e di straordinaria ispirazione, mi ha dato la forza per credere “anche io posso farcela” e di trovare dentro di me il coraggio per superare queste paure. Noi donne abbiamo una forza emotiva ed una determinazione senza pari, ma per esprimerla abbiamo spesso bisogno di una spinta iniziale, di una guida che ci indirizzi. Così è successo a me. Da ragazza timida a networker, addirittura chiamata a parlare a il Tempo delle Donne. Non sono diventata “miss sicurezza in se stessi”, ma sono sulla buona strada. Molto spesso gli stereotipi e la paura di essere giudicate limitano la nostra capacità di agire. Il mentoring e il networking sono armi utili per trovare il coraggio di affrontare queste paure. D’altronde si dice provando si impara, ed infatti ascoltando e buttandosi in nuove esperienze impariamo ad aumentare la nostra autostima, a promuoverci e dopo le prime volte, diventa un’abitudine. Infatti, io ho iniziato a partecipare con costanza ad eventi di networking, mi sono imposta di proporre sempre le mie idee ed ho scoperto che nella vita è tutto una questione di pratica».

lunedì 8 settembre 2014

Dol’s il sito delle donne online


La storia

a me piace un sacco!!! http://www.dols.it/storia-di-dols/ e visto che ci sono vi suggerisco di leggere anche un altro articolo -è del 2008- che mi è piaciuto un sacco.bis! Un altro articolo strepitoso in uno spazio web strepitoso. Ecco, lo trovate qui: http://www.dols.it/2014/09/05/giovani-donne-degli-anni-70/

dols-storia


Premessa
Dol’s nacque nel 1999 dalla passione e dall’amore per le nuove tecnologie di quattro donne (Giovanna Fuse’ manager di una societa’ informatica, Giuliana Isola, architetta votata al web design, Bettina Jacomini, giornalista web e Caterina Della Torre linguista passata al marketing tradito per internet) che in una domenica di aprile del 1998, hanno deciso di aprire sul web uno spazio riservato alle donne per aiutarle ad acquisire confidenza con le nuove tecnologie e dare visibilità alle loro attività, in un mondo completamente maschile come era il web di allora. Poi le vicende del tempo hanno mutato la compagine associativa e dol’s è rimasta nelle mani di una sola di loro, Caterina Della Torre. 

Il tempo passa ma Dol’s non resta indietro.
Sono trascorsi 15 anni da allora e di “acqua sotto i ponti” ne è passata. Molte iniziative, una volta sgonfiatosi l’entusiasmo per il web, sono morte o si sono trasformate. Dol’s invece e’ sempre cresciuta, mantenendo gli obiettivi originari e anzi allargando il campo dell’informazione anche ad altri ambiti d’interesse per le donne. La veste grafica del sito e’ stata ristrutturata più volte, bel 2001, 2006, 2010, fino ad oggi 2014 quando si presenta in veste di magazine professionale. Dol’s, non si avvale solo della collaborazione di alcune giornaliste professioniste, ma anche di decine e decine di donne che affascinate dalla possibilita’ di esprimersi in un loro spazio, mandano continuamente alla redazione scritti spontanei. Questi vengono poi vagliati e corretti e possono trovare spazio sul portale che come sottotitolo ha proprio “il sito delle donne online”.


Dol’s e la sua community
Caratteristica di dol’s fin dall’inizio e’ stata quella di offrire alle proprie lettrici storie di donne che “ ce l’hanno fatta” nei vari settori, ma anche nella vita quotidiana, attraverso interviste condotte dalla redazione di dol’s.

Inoltre e’ stato creato un contatto diretto sui social media sui quali dol’s e sempre presente e a breve verrà creato un forum per discutere gli articoli pubblicati. Queste varie forme di contatto hanno portato a stringere stretti e amichevoli rapporti tra le donne che “gravitano” su dol’s, una rete “spontanea” che trova al suo interno sostegno e informazioni utili e dalla quale sono nate anche nuove iniziative.

Le caratteristiche di Dol's oggi
Oltre all’informazione, dol’s mette a disposizione di tutte le proprie navigatrici, la possibilita’ di prendere contatto diretto con professioniste dei piu’ svariati settori, dall’architettura alla psicologia, dalla medicina a – ovviamente – le nuove tecnologie.
Dol’s ha condotto anche molti sondaggi tra la sua comunita’ fidelizzata di utenti, in collaborazione con testate giornalistiche (Corriere Lavoro), Dipartimenti di ricerca Universitaria della Bicocca, realta’ commerciali (Fiera di Milano, CHL, Vichy), relativi a temi legati non solo alle nuove tecnologie ma anche alle pari opportunita’, alla politica, al lavoro e alla societa’ in generale.

Aree tematiche
Dol’s presenta varie aree tematiche: donne e lavoro, pari opportunità, cultura, salute e benessere, costume e società (che si suddivide in viaggi, eventi e solidarietà. Ogni area viene rinnovata nei contenuti durante la settimana. Una newsletter settimanale mantiene gli utenti iscritti aggiornati, indirizzandoli direttamente sui nuovi articoli pubblicati. Il tono dei contenuti e’ ironico o piu’ serio quando necessario, ma sempre amichevole per far sentire le navigatrici a proprio agio.

Posizionamento
Un tempo Dol’s si rivolgeva alle donne che lavoravano utilizzando le nuove tecnologie. Oggi le tecnologie sono pervasive e si trovano in ogni settore e le signore del web si sono impadronite di queste, a cominciare dallo smart phone (per questo il nuovo dol’s è responsive) per finire al tablet o al pc. Tuttavia il taglio impegnato che anima gli articoli presenti sul magazine, lo ha posizionato sempre maggiormete in una fascia di utilizzo alta.


Punti di forza
  • Una vasta quantita’ di contenuti, tra i piu’ innovativi aderenti al target
  • La redazione, vasta e dispersa sul territorio, è sempre viva e attenta: il sito cambia quotidianamente, rispondendo rapidamente alle richieste degli utenti
  • Una comunità navigatrici fidelizzate che partecipano attivamente inviando contributi
  • Interattivita’ su ogni argomento
  • Esperti che rispondono professionalmente su varie materie: dall’imprenditoria alla ginecologia
  • Forte efficienza nell’uso delle risorse (bassi investimenti effettuati e minimi costi di gestione)
  • Ottimo posizionamento su Internet (motori di ricerca, collegamenti)
  • Database di utenti registrati su cui basare le proprie analisi dell’utenza per studiare servizi che la soddisfino.
Conclusione
Dol’s utilizzando le proprie risorse ed energie, e’ riuscita a realizzare un sito aperto e ricco destinato ad accontentare le esigenze delle navigatrici lasciando loro uno spazio d’intervento. Il marchio di dol’s e’ riconosciuto nelle sue potenzialita’ sia dalle navigatrici che dai referenti istituzionali. Per chiarezza, impegno, trasversalita’e trasparenza. Ma soprattutto, dol’s e’ riuscita a centrare il primo obiettivo che si era data: la community si e’ sviluppata e le utenti spesso si conoscono attraverso il sito e collaborano tra di loro.

Nuova Dol’s
Dopo tanti anni di sperimentazione e dopo aver raccolto intorno a sé una comunità di professioniste, manager, imprenditrici e giovani donne alla ricerca di nuovi spazi, dol’s ha sentito la necessità di cambiare, di diventare più multimediale e piu’ partecipativa e più ”responsive” cioè rispondente ai nuovi mezzi tecnologici.
Infatti nella nuova dol’s avranno posto interviste audio e video e le potrete ricevere facilmente sul vostro cellulare. Dol’s è sempre più aperta alla collaborazione partecipata da parte delle navigatrici che potranno mandare loro articoli e spunti alla redazione che le valutera’ e pubblichera’. Quindi non una redazione unica e centralizzata, ma una nuova e piu’ diffusa. Le reazioni delle navigatrici verranno analizzate e prese in considerazione con i vari minitest che verranno proposti. Quindi dol’s si rinnova grazie alle sue navigatrici.

Le tante dol’s dal 1999 ad oggi


Dal 1999 al 2002

dols201



Dal 2002 al 2006

dols-2002

Dal 2006 al 2010
dols-2004


Dal  2010 al 2014

dol's-2011


dol’s oggi – la puoi vedere anche dal tuo telefonino
dols-oggi